Se io e la mia famiglia ci trasformassimo in animali…

Io vorrei, anche se il destino sarebbe già segnato, essere una gatta: un puro animale libero e agile.

Sarei gatta anche perché’, riposando su una pregiata poltrona in pelle con raffinate cuciture, leccherei pian piano tutto il caldo latte versato dalla mia padrona:  una persona amabile e affabile. Logicamente, ogni volta che vorrei, andrei nello splendido giardino: spunterebbero rose qua e la’ e alberi profumati, per il sole d’ estate, e altre sorprendenti piante.

Se tutto cio’ non fosse così, sarei nei guai

Chissà, sarei una povera micina randagia o peggio.

Nonostante ciò, vorrei comunque essere una gatta: in loro c’è, e sempre rimarrà, una dignità, cosa che in un cane, secondo me, non c’è o c’è a malapena.

I gatti continuano a procurarsi cibo e acqua mentre, sempre secondo me, i cani per esempio, cominciano ad andare dalla gente e a fare gli affettuosi per inutili carezze o per ricevere viveri.

Io vorrei essere una micia nera.

Vorrei essere nera poiché i superstiziosi continuano, ieri e oggi, a diffidare dei gatti neri.

Mia madre.

Mia madre la vedrei bene come un colibrì, per vedere in ogni dove, perché ella è una viaggiatrice. Migrerebbe, di città in città, conoscerebbe storie e tradizioni nuove e si rallegrerebbe.

Mio padre.

Mio padre, invece, lo paragonerei ad un leone con entrambi un forte carattere e ambizioni ben precise. A mio padre, infatti, piace il calore.

ecco un esempio di quanto siamo diversi; odio il caldo e comunque non m i piacciono i leoni.

I miei nonni.

La mia nonna materna sarebbe un falco, con quella sua vista.

Il mio nonno materno sarebbe invece, una formica, perché nel lavorare, trasportare e aggiustare, è assai bravo.

I miei altri nonni.

Il mio nonno paterno potrebbe essere un pettirosso; nel lavorare il legno sono molto simili.

La mia nonna paterna potrebbe essere, invece, un orsetto lavatore. Potrebbe sembrare una scelta non molto precisa e corretta, ma sopratutto strana. Invece un orsetto lavatore perché entrambi si preoccupano molto dell’igiene e della pulizia del cibo.

Credo che ogni componente della mia famiglia approverebbe la mia riflessione: sennò, colui che non approvasse, non sarebbe ben conosciuto da me.

 

 

 

 

Un giorno aprii un armadio e all’interno trovai…

Appena aperta l’anta dell’armadio vidi due abiti antiquati e polverosi.

L’armadio era alto e stretto: era alto circa tre metri.

Il primo metro dal legnoso pavimento in su, era occupato da un cassettone il resto era riempito da altri antichi abiti da sera.

Mi affascinavano molto gli abiti da donna, con tutti quei cristalli attaccati, ma anche quelli da uomo non finivano di sorprendermi: avevano per esempio fibbie d’oro massiccio e colletti decorati con pizzi e pizzi intrecciati tra loro.

Poiché mi incuriosiva il cassettone, guardai cosa c’era dentro: preziose sciarpe in seta e neri cappelli cilindrici.

Guardai l’ora: erano le undici e mezza, quindi avevo un’ora precisa per provare i vestiti che giudicavo doveroso vederli sul mio corpo.

Incominciai con un abito degli anni sessanta che mi divertiva molto; chiusi gli occhi per immaginare e quando li riaprii mi trovai ad un concerto. Ascoltando meglio la musica riconobbi che era dei Rolling Stones. Sembrava di viaggiare nel tempo con quei vestiti: decisi allora di provare una divisa di un college. Come per magia mi ritrovai in un’aula di un college inglese.

Appena riaperti gli occhi ritornai nell’armadio: qua di vestiti ce n’erano a migliaia quindi li provai uno ad uno.

Era una magica avventura, ma non appena furono le dodici in punto, io richiusi l’armadio alle mie spalle, mi misi la chiave in tasca e andai a pranzare.

Da quel giorno andavo lì ogni settimana e ci rimanevo anche per l’intero giorno. Una volta compiuti gli otto anni e sei mesi, appena provati gli svariati vestiti, rimanevano lì. Sempre lì. Era proprio un armadio magico.

Dopo i nove anni andai solo a vedere gli abiti, dato che non riuscivo più a viaggiare nel tempo, ma sembrava di rifarlo, soltanto immaginandolo.

Era quindi lo stesso armadio di una volta, bastava crederci.

Ebbi altre fantastiche avventure ma dopo un po’ mi stancai di vedere epoche, vite e gentaglia diverse: “Strano!” dissi io. Qualche tempo prima mi ero addolorata profondamente di non attraversare spazi temporali e adesso ero stufa?!?! Non era possibile!!

Andai allora in camera mia, lasciai pure che le mie palpebre si chiudessero per bene e l’indomani mattina mi svegliai. Feci una ricca colazione e, barcollando per i corridoi, mi avviai verso quello strano armadio con sotto i piedi diverse assi del parquet cigolanti.

Appena arrivata aprii la porta dell’armadio con la chiave che tenevo in tasca: rovinata, usata e con il colore schiarito da mani vivaci. Dopo aver aperto l’armadio entrai dentro ad esso e con un volto tirato e dubitante guardai i vestiti con le fantasie più incomprensibili, me li provai – senza sapere a che epoca appartenessero – e poi mi sforzai di immaginare, seppur svogliata, ma rimasi lì, con due occhi che sembravano aver visto un fantasma.

Poco dopo sentii una voce molto sinistra, preveniente dall’armadio, non cupa e tenebrosa, bensì una voce dolce. Questa voce disse “Ormai non accade più nulla perché ora sei cresciuta di spirito talmente tanto che i viaggi magici e le fantasie momentanee non servono a farti sognare”. Da quella frase potei comprendere che l’essere che aveva emesso la soluzione al mio problema era o una fata o un altro di quei piccoli abitanti boscaioli.

Io per lo spavento corsi via, c’erano talmente tanti corridoi che arrivai in camera mia con il fiato lungo.

Riflettei.

Dopo capii tutto, così mi immaginai lì sul mio letto in un altro mondo.

Ci riuscii.

Di colpo mi svegliai ripensando al mio sogno.

Ora la vita ha più senso.

Se volessi avere un  magico armadio, vorrei questo.

 

 

 

 

Ho litigato con un’amica

Noi ci eravamo trovate là, su quella spiaggia, davanti a quel tramonto, con sulla faccia impressi due felici sorrisi durati non molto: un litigio.

All’inizio ci eravamo sedute su una panchina, a guardare uno splendido sole calante, con un debole vento che accarezzava i nostri visi.

Non ci vedevamo da molto tempo e mi sembrava quasi di non riconoscere più il viso di Anna.

Lei incominciò a parlare, a parlare della scuola, della sua vita in Germania e della sua nuova migliore amica: “Migliore amica?!” le chiesi io, “Com’è?” Lei, guardandomi con i suoi occhi celesti mi disse: “Molto meglio di te, lei è la mia nuova vera m migliore amica .” Io mi limitai a fare un sorrido falso, come se volessi dire che aveva vinto, che mi aveva spaesata.

Anna mi mandò un messaggio con due faccine sorridenti come facevamo ai vecchi tempi, ma io, dopo aver sentito l’arrivo del messaggio, continuai a guardare i suoi occhi traditori.

Adesso sono ancora qui, vicino a lei, con un cielo che pian piano si imbrunisce, con un viso che pian piano si incupisce.

 

 

 

Jim e il pirata

(Inizio della storia tratto da “L’isola dei tesoro” di R. L. Stevenson)

[Jim è un ragazzo che si trova coinvolto in un’avventura entusiasmante e pericolosa. Venuto in possesso della mappa di un’isola in cui deve trovarsi un tesoro, si imbarca come mozzo su una nave. Fra i marinai, però, si infiltrano anche dei pirati, bramosi di appropriarsi del tesoro…]

Assorto com’ero nella manovra, mi ero dimenticato di sorvegliare i movimenti del mio compagno, Guardavo attentamente i gorghi che si aprivano al giungere dell’Hispaniola e aspettavo l’urto della nave contro la sabbia quando non so perché, mi venne fatto di voltare indietro la testa. Avevo forse sentito un leggero scricchiolio o fu un movimento puramente istintivo? Non so, ma è certo che Istrael Hands(uno dei pirati) mi stava sopra con il pugnale in mano…

Due grida sfuggirono dalle nostre bocche: di terrore dalla mia, di rabbia dalla sua. Hands si slanciò in avanti contro di me, io balzai indietro lasciando andare la sbarra che, tornando al suo posto, colpì in pieno petto il  mio avversario e lo mandò a ruzzolare lungo, disteso a terra. 

Devo la vita a questa circostanza.

Prima che lui si riavessero mi ero addossato all’albero maestro e puntavo le mie pistole verso di lui. Premetti il grilletto, ma ahimè! La polvere si era bagnata e l’arma non sparò! Maledissi la mia negligenza.  Perché non avevo verificato e rinnovato la carica? avrei potuto da assalito farmi assalitore e invece dovevo fare come la pecora che funge dinanzi al beccaio.

IL volto paonazzo di furore, i capelli grigi e in disordine di Hands facevano spavento. Pensavo come sfuggirgli e intanto cercavo di ripararmi dietro l’albero maestro, quando un urico violento della nave pose fine alla mia insostenibile posizione, mandandoci tutti e due a ruzzolare sul ponte e insieme a noi anche il cadavere di O’ Brien.

Mentre Hands impacciato dal cadavere e dalla sua stessa debolezza faceva sforzi per alzarsi, io, rapido come il lampo, mi arrampicavo sull’albero maestro. La mia agilità da scoiattolo mi salvò dalla morte, perché il pugnale che l’assassino scagliò andò a conficcarsi nell’albero pochi centimetri al di sotto di me. Nel vedere fallito il suo colpo, Hands restò a guardarmi come inebetito, poi lentamente si avvicinò all’albero maestro per cambiare la carica alle pistole. Vistosi perdute cieco di rabbia, il misurabile cominciò ad arrampicarsi lungo la scala di corda con il pugnale fra i denti; ma ormai avevo terminati i miei preparativi e puntando contro di lui le pistole, gli gridai: ” Se fate un passo di più vi brucio le cervella! “.

Egli si arrestò: il suo viso assunse un’espressione grottesca. Alla fine, dopo molte contorsioni, si tolse il pugnale dai denti e disse: “Jim, vedo che siamo in cattive condizioni tutte e due e forse ci convien segnare la pace. Senza quella maledetta scossa ti avrei già freddato, ma non ho avuto fortuna. E’ dura per un marinaio come me dover cedere e dichiararsi vinto da un ragazzaccio”.

Io ascoltavo e sempre più mi inorgoglivo come un gallo salito sul muro…

 

(dall’autrice del blog…)

Chinò la testa, si riprese il pugnale e…colpì! Sì, colpì di sorpresa, inaspettatamente ma io agilmente mi spostai; pertanto le pistole, per il colossale spavento, cascarono: fine vita. Ebbi anche sfortuna per la morte non immediata – ero riuscito a salvarmi –  ma uno stancante combattimento mi attendeva. Decisi allora, attraverso la rete, di calarmi fino al pavimento legnoso superiore.

Lo feci.

Mi tuffai in mare e tramite un barile galleggiai.

Dopo un giorno misi la mia testa fuori dal barile e vidi a pochi metri un’isoletta e della nave nessuna traccia.

Uscii dal mio momentaneo riparo e nuotai fino ad essa. Con cuor battente per la felicità di non essere più – dopo un po’ – zuppo com’ero.

Quando riuscii ad arrivare sull’isoletta, mi trovai bene: l’isola era piccola, notai subito una cavità e da lì trovai un tesoro immerso.

Entrai e vidi rubini, zaffiri, diamanti e tanto, tanto sfavillante oro.

Pensai subito che sarebbe stato il mio tesoro ma ora ero un naufrago: come fare a ritornare a terra o su una nave?

Capii che stare lì ad aspettare sarebbe stato inutile.

Decisi quindi di fermarmi lì quella sera, visto che l’arancio luccichio del sole era già sul cupo mare.

Mi svegliai con un’onda battente sullo scoglio dove ero appoggiato: tutt’altro che a Londra con la sveglia in legno rifinito con oro! Mi alzai di buon’ora (lo capii dal sole che incominciava a salire, come per riscaldarmi da quella fredda nottata). Mi misi subito a lavoro così che ebbi finito un’ora dopo: avevo creato una zattera di palme, l’avevo imparato al corso di sopravvivenza. Avevo fatto colazione con due miseri e rinsecchiti chicchi d’uva che avevo conservato in tasca.

Forgiai allora due remi, sempre in legno di palma, partii per l’avventura e mi direzionali verso il Nord secondo il mio istinto marinaro.

Remai per esattamente sei giorni e tre ore (credo) finché non arrivai finalmente su una penisola in Brasile: non conoscevo la lingua e quindi comunicai come i mimi.

Mi prestarono una nave chiamata “Fior”, completa di scialuppa e, per fortuna, una specie di capitano che avrebbe dovuto eseguire soltanto la rotta da me desiderata. Così fu.

Quando arrivai di nuovo sull’isoletta la riconobbi grazie dalla piccola cavità. Avvisai della mia assenza momentanea e, tramite una scialuppa, approdai su essa. Presi però anche due bei sacchi di cotone resistente e li riempii per benino con oro, zaffiri e diamanti:  non i rubini perché di rubino era l’orecchino di Hands, mio rivale.

Così feci ritorno in Brasile e dopo ritornai a Londra; avevo già ventisette anni e mi ero imboscato per la prona volta a soli ventitré anni: erano passati ben quattro lunghi anni prima di ritornare a Londra con il mio grande bottino.