Una nuova avventura per Harry Potter

E mentre una leggera brina imbiancava i tetti di Londra, Harry Potter camminava lungo un roccioso e sterrato sentiero,

Ad un tratto scorse un movimento in un cespuglio di edera.

Silenzio.

Sbucarono due occhi cupi, tristi ma allo stesso tempo irati.

Da una crepa nella roccia ne sbucarono altri due e altri due ancora.

Harry si tirò per vedere quanti altri ne sbucassero, ma con sua grande sorpresa non ce n’era neanche uno.

Si rigirò. Niente.

Comprese che aveva avuto delle allucinazioni, perché un milione, anzi, un’infinità di occhi erano scomparsi nel nulla, o esse avevano penetrato la sua mente.

Riprese allora il cammino verso la sua meta, un giardinetto, e quando ci arrivò, si sedette sulla panca e aspettò che l’ombra della notte scendesse cupa e misteriosa e che un giorno passato si librasse nell’aria.

Cominciò  a pensare a quell’avvenimento, se fosse realtà o invenzione, ma dopo le palpebre gli si chiusero e lasciò spazio a un profondo sonno.

L’indomani mattina, bianco di neve, Harry potter si svegliò infreddolito, stremato dalla notte.

Si scrollò via la neve.

Una candida neve.

Si alzò e ritornò nell’appartamento che aveva affittato: un grigio monolocale con aria viziata.

Posò le chiavi e con le braccia incrociate si sedette vicino a un tavolino di legno decorato, comprato in un negozio di antiquariato.

Ci posò sopra ile mani e ripensò al momenti in cui l’aveva comprato era in compagnia di Hermione e di Ron e il venditore gli aveva spiegato che in passato quel tavolo era stato usato per appoggiare la bacchetta di personaggi importanti, quindi il prezzo sarebbe stato alto. Hermione aveva chiesto chi fossero essi e quindi il venditore, con basso volume di voce, aveva detto che la bacchetta di Lord Valdemort era stata usata nella stanza e posata su quel tavolino.

I tre amici non gli avevano creduto.

Harry ripensò anche a quando Ginny Weasley gli aveva raccontato che gli oggetti venuti a contatto con la bacchetta di Lord Valdemort, se venuti a loro volta a contatto con il sangue delle persone, avrebbero portato a strani eventi.

In realtà, a Harry era entrata una scheggia di quel tavolino nella mano: era successo l’estate scorsa, tutto per colpa di un dannato e monotono scherzo di Ron.

Infatti, prima degli occhi, c’erano stati gatti neri sbucati dal fuoco, e tanti altri impetuosi e bizzarri avvenimenti.

Si recò subito nella biblioteca principale e lesse che tutti questi piccoli e insignificanti avvenimenti, avrebbero infine portato a qualcosa di terribile…

Quando ritornò a casa e si mise a letto, Harry non sapeva se essere felice per la scoperta, o triste e preoccupato per quello che molto, ma molto presto gli sarebbe successo.

I giorni passarono e sempre più preoccupato, Harry voleva capire quanto questo momento sarebbe arrivato.

Circa un anno dopo, arrivò il gran giorno.

Camminando sul lago, Harry sentiva l’aria gelida scompigliargli i capelli e una brutta sensazione che gli attraversava la mente.

Improvvisamente una farfalla nera, con varie fantasie bianche e dorate, si posò sulla sua spala: Harry ebbe solo un momento per guardarla perché poi qualche misteriosa forza cercò di annegarlo nell’acqua.

Quando, dopo aver lottato disperatamente, Harry ritornò sulla riva Est del lago, corse via immediatamente.

Andò in mezzo alla città, cercando un po’ di conforto nella compagnia di altre persone, anche se in fondo sapeva di essere speciale.

Ritornando a casa, trovò una piccola porticina in legno marcito per il tempo, in un muro sgretolato, con freddi mattoni.

Harry pensò che, se fosse entrato, la fiamma della sua vita si sarebbe potuta spegnere per una fredda corrente d’aria, ma decise che la fiamma si sarebbe spenta dove almeno avrebbe programmato.

Appena entrato, scoprì che era una specie di fogna e la luce, che entrava da una fessura di un tombino, era rada e deprimente. Non appena Harry toccò una piccola crepa per terra, la crepa principale si estese e lo fece cadere rovinosamente nel fango di quella specie di fogna.

Harry, che era svenuto, fu risvegliato da un pizzicotto di scorpione.

Scoprì che ce n’erano altri, alcuni grandi come un polso.

Stavano tutti venendo fuori dalla crepa, come se Harry avesse risvegliato una malvagia bestia…

Come d’improvviso, una zampa dopo l’altra, dalla crepa, uscì uno scorpione grande come un palazzo.

Harry si arrampicò e cercò di raggiungere il tombino, ma proprio quando stava per uscire, la coda dello scorpione ruppe il soffitto.

Harry si sentiva piccolo, tanto piccolo: era attaccato solo con un braccio, a un mattoncino che stava per cadere, e sotto di lui lo avrebbe aspettato uno strapiombo.

La bacchetta gli era caduta quando si stava arrampicando e, quindi, come previsto, la sua vita si sarebbe ben presto spenta.

La bestia morì, così, all’improvviso, forse per un’infarto, ma mentre la testa di Harry elaborava tutto, con gran confusione, vide apparire sul lato destro della crepa Lord Valdemort.

Harry comprese che lo aveva ucciso lui il mostro, ma…perché?!

Lord Valdemort, con lo stesso sorriso falso, trascinò con un raggio di luce verdastra, Harry Potter giù, vicino a lui.

Harry non sapeva cosa fare, era senza bacchetta quindi, se lo aspettava un combattimento, avrebbe fallito sicuramente.

La cercò e la ricercò, ma invano.

Era sicuramente nella crepa.

Harry si buttò, proprio quando Lord Valdemort gli stava per puntare la bacchetta. Harry voleva la morte facile.

Dopo diversi spuntoni, Harry riuscì ad  aggrapparsi ad uno e a riprendere a tastoni la bacchetta.

La crepa era lunghissima circa dieci di quei mostri.

Appena impugnata la bacchetta, Harry ritornò su, vicino a Lord Valdemort.

Lord Valdemort alzò la bacchetta verso Harry, ma era stato troppo prevedibile perché Harry, agilmente, schivò il fulmine che esso gli aveva lanciato.

Con una serie di colpi, di scintille, di insulti, Harry riuscì a tirare un colpo nella milza di Lord Valdemort, che si accucciò. Lord Valdemort fece lo stesso sorrisino dell’inizio solo come per dire che si sarebbe vendicato molto presto.

Con la sua bacchetta, infine, risvegliò lo scorpione e si fece riaccompagnare all’inizio della crepa, in un luogo sconosciuto…

Quando Harry alzò gli occhi al cielo, notò una piccola folla che lo acclamava. Harry venne considerato un eroe ma non sconfisse del tutto Lord Valdemort, che giace ancora in quel posto sperduto…

L’incontro col brigante

(Inizio di A. Borsani, Il Mistero del libro sbagliato).

Dopo una mezz’ora buona che camminavo, ebbi come la sensazione di avere attorno un paesaggio diverso, anche se il bosco sotto la neve si assomiglia un po’ dappertutto. Il sentiero ora saliva troppo ripido e comparivano spuntoni di roccia che mi sembrava di non aver mai visto prima. Guardai l’orologio e vidi che erano quasi le quattro. Avrei dovuto essere già fuori dal bosco, ma davanti a me avevo alberi innevati sempre più fitti. Comincai allora a pensare di essermi persa, e in quel preciso momento sentiti un grido:

– Altolà!

Io non avevo capito bene cosa volesse dire quell’ordine. Da dietro il tronco dell’albero uscì un buffo personaggio. Se il momento non fosse stato così drammatico, mi sarei messa a ridere. L’uomo aveva un cappellaccio largo e un pesante giaccone nero, tra questi due indumenti spuntavano un folto cespuglio di barba grigia, due occhi luccicanti e un naso aquilino. Quello strano individuo avanzò puntandomi contro un vecchissimo fucile a tromba. Mi intimò di camminare.

Avanzammo per dieci minuti affondando sempre di più nella neve, il brigante dietro di me con il fucile puntato e io con le mani tese in avanti.

Avanzammo fino a dove il bosco finiva contro una roccia. Lì il vecchio brigante spostò dei rami secchi scoprendo un passaggio nella parete della montagna.

Dopo alcuni passi in quello stretto corridoio sbucammo in una gola che era simile a un cratere. Lì, addossata a una parete, c’era una capanna in legno con un camino che liberava un denso fumo grigio verso la piccola fetta di cielo che si scorgeva in alto.

Il vecchio brigante mi fece entrare nella capanna. Dentro c’era una piacevole tepore e pochissima luce. Riuscivo appena a vedere un tavolo con tre sedie attorno, una stufa, un letto e uno scaffale che sembrava carico di stani libri.”...

…Finché non mi sedetti, non notai un cuscino vicino a me. Volevo capire se aveva intenzione di farmi a pezzi, piano, piano, aspettando che gli spifferassi tutto quello che sapevo sul progetto “A.P.D” cioè Allarmi Per Discariche: per togliere i delinquenti che rapivano persone importanti come potenti banchieri o che rubavano all’incirca ogni anno un miliardo di euro e nascondevano tutto lì, sepolto sotto i rifiuti organici ben distinti e ritrovabili. Il cuscino, però, a cosa serviva? Forse se non mi avesse torturata mi avrebbe direttamente sparato con il cuscino in mezzo per non far sentire le pallottole che si conficcavano dentro di me… Non lo so. Dopo circa un’ora capii che voleva soltanto avere una compagna che gli facesse la colazione, che gli lavasse i vestiti ma anche che gli fosse fedele: ecco perché aveva poco prima lasciato libera sua moglie. Tutto ciò me lo raccontò in cucina, offrendomi dell’ottimo the verde con un retrogusto di limone zuccherato: sembrava abbastanza gentile se non fosse stato per l’ultima frase, quella che per il giudizio personale fu fatale. Mi disse, guardandomi negli occhi, che dovevo essere io sua moglie: a me sembrò la cosa veramente fatale, un urlo offensivo dettato dalla collera. Lui mi prese, mi strattonò e mi depositò contro un ripostiglio. Mi lasciò lì per due notti, senza pane, acqua, solo con il nulla delle energie. Il terzo giorno mi tirò fuori e mi buttò a terra un  misero pezzo di pane. Disse poi che sarebbe andato a caccia. A me venne da sorridere perché così avrei potuto tentare la fuga. Ovviamente lui sigillò tutto e io rimasi lì senza idee.

Siccome i suoi libri mi incuriosivano ne presi uno, guardando bene la sua posizione originaria: parlava di folletti e non appena arrivai a pagina duecento quaranta, trovai un foglio dove c’era scritto che duecento quaranta era in alto. Una via d’uscita! Aveva nascosto lì quel foglio poiché una visita inaspettata di altri briganti non avesse dato problemi. Io mi ingegnai con una mente da brigante finché non trovai un laccetto e lo tirai: la capanna che sembrava stabile cadde come un fiore calpestato.

Io me ne uscii ma cercai una bussola e ne trovai una d’oro: probabilmente rubata. Mi ricordai che la mia casa era a nord-est e quindi mi girai e camminai facendo attenzione a non farmi vedere dal brigante. Dopo circa due ore mi ritrovai nella discarica principale della città: non poteva essere perché la discarica era completamente dall’altra parte del bosco e quindi da casa mia.

Ripercorsi la stessa strada e ritornai a dieci metri laterali dalla capanna per non farmi vedere e così pensai che anche quello fosse stato un trucchetto, quindi andai dalla parte opposta: sud-est.

Dopo un’ora, passando davanti alla fabbrica che produceva allarmi per il progetto A.P.D., decisi di entrare e mi informarono che la polizia aveva appena trovato un Rolex con diamanti sotto un sacco di immondizie. Il ladro lo descrivevano con un largo cappello, vecchiotto e con un vecchio fucile a tromba: l’avevano appena arrestato e messo nella prigione principale, a due passi da casa.

Siccome era il brigante che avevo conosciuto io, decisi di andare a fargli un saluto. Appena entrata, lo vidi subito ed ebbi il permesso di entrare, poichè lavoravo presso l’A.P.D. Lui si mise a piangere perché non aveva più casa e gli rimaneva solo il nulla. Io mi commossi e gli promisi che lo avrei fatto uscire: lui arrabbiato, ma anche contento, fece un lieve sorriso, che a malapena riuscii a scorgere. Ritornai a casa e seduta su una sedia mi misi le mani fra i capelli: perché avevo combinato un guaio. Pensai per lunghe ora a cosa potevo fare: mi venne l’idea di autodenunciarmi. Chiamai la polizia e dissi che mi dovevano mettere in carcere. Loro, strabiliati, lo dissero al giudice ma io richiesi ad essi di non andare in tribunale. Chiesi anche di scontare però la pena carceraria al brigante. Loro accettarono e, dopo  qualche ora, mi vennero a prendere, mi misero le gelide manette e mi condussero nelle loro auto. Un giorno dopo mi diedero gli abiti di quel carcere: li conoscevo bene perché la prigione era  governata dal direttore dell’A.P.D. Mi annunciarono anche che avevano ridotto la pena del brigante da dodici a cinque anni: io avevo invece tre anni perché l0 avevo confessato e il mio reato era molto inferiore al grado di criminalità di quello del brigante. Ora mi sentivo bene e notai più sorrisi sopra il volto di Leonardo, il Brigante.

Ogni pranzo e cena ci incontravamo e questuo fece sì che diventassimo ottimi amici.

Se io e la mia famiglia ci trasformassimo in animali…

Io vorrei, anche se il destino sarebbe già segnato, essere una gatta: un puro animale libero e agile.

Sarei gatta anche perché’, riposando su una pregiata poltrona in pelle con raffinate cuciture, leccherei pian piano tutto il caldo latte versato dalla mia padrona:  una persona amabile e affabile. Logicamente, ogni volta che vorrei, andrei nello splendido giardino: spunterebbero rose qua e la’ e alberi profumati, per il sole d’ estate, e altre sorprendenti piante.

Se tutto cio’ non fosse così, sarei nei guai

Chissà, sarei una povera micina randagia o peggio.

Nonostante ciò, vorrei comunque essere una gatta: in loro c’è, e sempre rimarrà, una dignità, cosa che in un cane, secondo me, non c’è o c’è a malapena.

I gatti continuano a procurarsi cibo e acqua mentre, sempre secondo me, i cani per esempio, cominciano ad andare dalla gente e a fare gli affettuosi per inutili carezze o per ricevere viveri.

Io vorrei essere una micia nera.

Vorrei essere nera poiché i superstiziosi continuano, ieri e oggi, a diffidare dei gatti neri.

Mia madre.

Mia madre la vedrei bene come un colibrì, per vedere in ogni dove, perché ella è una viaggiatrice. Migrerebbe, di città in città, conoscerebbe storie e tradizioni nuove e si rallegrerebbe.

Mio padre.

Mio padre, invece, lo paragonerei ad un leone con entrambi un forte carattere e ambizioni ben precise. A mio padre, infatti, piace il calore.

ecco un esempio di quanto siamo diversi; odio il caldo e comunque non m i piacciono i leoni.

I miei nonni.

La mia nonna materna sarebbe un falco, con quella sua vista.

Il mio nonno materno sarebbe invece, una formica, perché nel lavorare, trasportare e aggiustare, è assai bravo.

I miei altri nonni.

Il mio nonno paterno potrebbe essere un pettirosso; nel lavorare il legno sono molto simili.

La mia nonna paterna potrebbe essere, invece, un orsetto lavatore. Potrebbe sembrare una scelta non molto precisa e corretta, ma sopratutto strana. Invece un orsetto lavatore perché entrambi si preoccupano molto dell’igiene e della pulizia del cibo.

Credo che ogni componente della mia famiglia approverebbe la mia riflessione: sennò, colui che non approvasse, non sarebbe ben conosciuto da me.

 

 

 

 

Un giorno aprii un armadio e all’interno trovai…

Appena aperta l’anta dell’armadio vidi due abiti antiquati e polverosi.

L’armadio era alto e stretto: era alto circa tre metri.

Il primo metro dal legnoso pavimento in su, era occupato da un cassettone il resto era riempito da altri antichi abiti da sera.

Mi affascinavano molto gli abiti da donna, con tutti quei cristalli attaccati, ma anche quelli da uomo non finivano di sorprendermi: avevano per esempio fibbie d’oro massiccio e colletti decorati con pizzi e pizzi intrecciati tra loro.

Poiché mi incuriosiva il cassettone, guardai cosa c’era dentro: preziose sciarpe in seta e neri cappelli cilindrici.

Guardai l’ora: erano le undici e mezza, quindi avevo un’ora precisa per provare i vestiti che giudicavo doveroso vederli sul mio corpo.

Incominciai con un abito degli anni sessanta che mi divertiva molto; chiusi gli occhi per immaginare e quando li riaprii mi trovai ad un concerto. Ascoltando meglio la musica riconobbi che era dei Rolling Stones. Sembrava di viaggiare nel tempo con quei vestiti: decisi allora di provare una divisa di un college. Come per magia mi ritrovai in un’aula di un college inglese.

Appena riaperti gli occhi ritornai nell’armadio: qua di vestiti ce n’erano a migliaia quindi li provai uno ad uno.

Era una magica avventura, ma non appena furono le dodici in punto, io richiusi l’armadio alle mie spalle, mi misi la chiave in tasca e andai a pranzare.

Da quel giorno andavo lì ogni settimana e ci rimanevo anche per l’intero giorno. Una volta compiuti gli otto anni e sei mesi, appena provati gli svariati vestiti, rimanevano lì. Sempre lì. Era proprio un armadio magico.

Dopo i nove anni andai solo a vedere gli abiti, dato che non riuscivo più a viaggiare nel tempo, ma sembrava di rifarlo, soltanto immaginandolo.

Era quindi lo stesso armadio di una volta, bastava crederci.

Ebbi altre fantastiche avventure ma dopo un po’ mi stancai di vedere epoche, vite e gentaglia diverse: “Strano!” dissi io. Qualche tempo prima mi ero addolorata profondamente di non attraversare spazi temporali e adesso ero stufa?!?! Non era possibile!!

Andai allora in camera mia, lasciai pure che le mie palpebre si chiudessero per bene e l’indomani mattina mi svegliai. Feci una ricca colazione e, barcollando per i corridoi, mi avviai verso quello strano armadio con sotto i piedi diverse assi del parquet cigolanti.

Appena arrivata aprii la porta dell’armadio con la chiave che tenevo in tasca: rovinata, usata e con il colore schiarito da mani vivaci. Dopo aver aperto l’armadio entrai dentro ad esso e con un volto tirato e dubitante guardai i vestiti con le fantasie più incomprensibili, me li provai – senza sapere a che epoca appartenessero – e poi mi sforzai di immaginare, seppur svogliata, ma rimasi lì, con due occhi che sembravano aver visto un fantasma.

Poco dopo sentii una voce molto sinistra, preveniente dall’armadio, non cupa e tenebrosa, bensì una voce dolce. Questa voce disse “Ormai non accade più nulla perché ora sei cresciuta di spirito talmente tanto che i viaggi magici e le fantasie momentanee non servono a farti sognare”. Da quella frase potei comprendere che l’essere che aveva emesso la soluzione al mio problema era o una fata o un altro di quei piccoli abitanti boscaioli.

Io per lo spavento corsi via, c’erano talmente tanti corridoi che arrivai in camera mia con il fiato lungo.

Riflettei.

Dopo capii tutto, così mi immaginai lì sul mio letto in un altro mondo.

Ci riuscii.

Di colpo mi svegliai ripensando al mio sogno.

Ora la vita ha più senso.

Se volessi avere un  magico armadio, vorrei questo.

 

 

 

 

Ho litigato con un’amica

Noi ci eravamo trovate là, su quella spiaggia, davanti a quel tramonto, con sulla faccia impressi due felici sorrisi durati non molto: un litigio.

All’inizio ci eravamo sedute su una panchina, a guardare uno splendido sole calante, con un debole vento che accarezzava i nostri visi.

Non ci vedevamo da molto tempo e mi sembrava quasi di non riconoscere più il viso di Anna.

Lei incominciò a parlare, a parlare della scuola, della sua vita in Germania e della sua nuova migliore amica: “Migliore amica?!” le chiesi io, “Com’è?” Lei, guardandomi con i suoi occhi celesti mi disse: “Molto meglio di te, lei è la mia nuova vera m migliore amica .” Io mi limitai a fare un sorrido falso, come se volessi dire che aveva vinto, che mi aveva spaesata.

Anna mi mandò un messaggio con due faccine sorridenti come facevamo ai vecchi tempi, ma io, dopo aver sentito l’arrivo del messaggio, continuai a guardare i suoi occhi traditori.

Adesso sono ancora qui, vicino a lei, con un cielo che pian piano si imbrunisce, con un viso che pian piano si incupisce.

 

 

 

Jim e il pirata

(Inizio della storia tratto da “L’isola dei tesoro” di R. L. Stevenson)

[Jim è un ragazzo che si trova coinvolto in un’avventura entusiasmante e pericolosa. Venuto in possesso della mappa di un’isola in cui deve trovarsi un tesoro, si imbarca come mozzo su una nave. Fra i marinai, però, si infiltrano anche dei pirati, bramosi di appropriarsi del tesoro…]

Assorto com’ero nella manovra, mi ero dimenticato di sorvegliare i movimenti del mio compagno, Guardavo attentamente i gorghi che si aprivano al giungere dell’Hispaniola e aspettavo l’urto della nave contro la sabbia quando non so perché, mi venne fatto di voltare indietro la testa. Avevo forse sentito un leggero scricchiolio o fu un movimento puramente istintivo? Non so, ma è certo che Istrael Hands(uno dei pirati) mi stava sopra con il pugnale in mano…

Due grida sfuggirono dalle nostre bocche: di terrore dalla mia, di rabbia dalla sua. Hands si slanciò in avanti contro di me, io balzai indietro lasciando andare la sbarra che, tornando al suo posto, colpì in pieno petto il  mio avversario e lo mandò a ruzzolare lungo, disteso a terra. 

Devo la vita a questa circostanza.

Prima che lui si riavessero mi ero addossato all’albero maestro e puntavo le mie pistole verso di lui. Premetti il grilletto, ma ahimè! La polvere si era bagnata e l’arma non sparò! Maledissi la mia negligenza.  Perché non avevo verificato e rinnovato la carica? avrei potuto da assalito farmi assalitore e invece dovevo fare come la pecora che funge dinanzi al beccaio.

IL volto paonazzo di furore, i capelli grigi e in disordine di Hands facevano spavento. Pensavo come sfuggirgli e intanto cercavo di ripararmi dietro l’albero maestro, quando un urico violento della nave pose fine alla mia insostenibile posizione, mandandoci tutti e due a ruzzolare sul ponte e insieme a noi anche il cadavere di O’ Brien.

Mentre Hands impacciato dal cadavere e dalla sua stessa debolezza faceva sforzi per alzarsi, io, rapido come il lampo, mi arrampicavo sull’albero maestro. La mia agilità da scoiattolo mi salvò dalla morte, perché il pugnale che l’assassino scagliò andò a conficcarsi nell’albero pochi centimetri al di sotto di me. Nel vedere fallito il suo colpo, Hands restò a guardarmi come inebetito, poi lentamente si avvicinò all’albero maestro per cambiare la carica alle pistole. Vistosi perdute cieco di rabbia, il misurabile cominciò ad arrampicarsi lungo la scala di corda con il pugnale fra i denti; ma ormai avevo terminati i miei preparativi e puntando contro di lui le pistole, gli gridai: ” Se fate un passo di più vi brucio le cervella! “.

Egli si arrestò: il suo viso assunse un’espressione grottesca. Alla fine, dopo molte contorsioni, si tolse il pugnale dai denti e disse: “Jim, vedo che siamo in cattive condizioni tutte e due e forse ci convien segnare la pace. Senza quella maledetta scossa ti avrei già freddato, ma non ho avuto fortuna. E’ dura per un marinaio come me dover cedere e dichiararsi vinto da un ragazzaccio”.

Io ascoltavo e sempre più mi inorgoglivo come un gallo salito sul muro…

 

(dall’autrice del blog…)

Chinò la testa, si riprese il pugnale e…colpì! Sì, colpì di sorpresa, inaspettatamente ma io agilmente mi spostai; pertanto le pistole, per il colossale spavento, cascarono: fine vita. Ebbi anche sfortuna per la morte non immediata – ero riuscito a salvarmi –  ma uno stancante combattimento mi attendeva. Decisi allora, attraverso la rete, di calarmi fino al pavimento legnoso superiore.

Lo feci.

Mi tuffai in mare e tramite un barile galleggiai.

Dopo un giorno misi la mia testa fuori dal barile e vidi a pochi metri un’isoletta e della nave nessuna traccia.

Uscii dal mio momentaneo riparo e nuotai fino ad essa. Con cuor battente per la felicità di non essere più – dopo un po’ – zuppo com’ero.

Quando riuscii ad arrivare sull’isoletta, mi trovai bene: l’isola era piccola, notai subito una cavità e da lì trovai un tesoro immerso.

Entrai e vidi rubini, zaffiri, diamanti e tanto, tanto sfavillante oro.

Pensai subito che sarebbe stato il mio tesoro ma ora ero un naufrago: come fare a ritornare a terra o su una nave?

Capii che stare lì ad aspettare sarebbe stato inutile.

Decisi quindi di fermarmi lì quella sera, visto che l’arancio luccichio del sole era già sul cupo mare.

Mi svegliai con un’onda battente sullo scoglio dove ero appoggiato: tutt’altro che a Londra con la sveglia in legno rifinito con oro! Mi alzai di buon’ora (lo capii dal sole che incominciava a salire, come per riscaldarmi da quella fredda nottata). Mi misi subito a lavoro così che ebbi finito un’ora dopo: avevo creato una zattera di palme, l’avevo imparato al corso di sopravvivenza. Avevo fatto colazione con due miseri e rinsecchiti chicchi d’uva che avevo conservato in tasca.

Forgiai allora due remi, sempre in legno di palma, partii per l’avventura e mi direzionali verso il Nord secondo il mio istinto marinaro.

Remai per esattamente sei giorni e tre ore (credo) finché non arrivai finalmente su una penisola in Brasile: non conoscevo la lingua e quindi comunicai come i mimi.

Mi prestarono una nave chiamata “Fior”, completa di scialuppa e, per fortuna, una specie di capitano che avrebbe dovuto eseguire soltanto la rotta da me desiderata. Così fu.

Quando arrivai di nuovo sull’isoletta la riconobbi grazie dalla piccola cavità. Avvisai della mia assenza momentanea e, tramite una scialuppa, approdai su essa. Presi però anche due bei sacchi di cotone resistente e li riempii per benino con oro, zaffiri e diamanti:  non i rubini perché di rubino era l’orecchino di Hands, mio rivale.

Così feci ritorno in Brasile e dopo ritornai a Londra; avevo già ventisette anni e mi ero imboscato per la prona volta a soli ventitré anni: erano passati ben quattro lunghi anni prima di ritornare a Londra con il mio grande bottino.

 

 

 

 

Fantasticità in persona: la mia Gatta

“Miao”, è questo il rumore che sento appena aperte le mie palpebre.

“Miao” “miao”, quando faccio colazione: la fame.

Impegno è la mia gatta. Occhi verdi, pelo tigrato, ma sì, mi ricorda tanto la dolce gatta che abita nella mia stessa dimora, che al contrario del nome (per me) è la micia più bella al mondo.

Devo ammettere che ha un po’ di pancia ed è una vera mangiona: lei impazzisce per l’uovo e le piacciono le lenticchie. Io gioco sempre con lei perché è tanto buona: a volte anche troppo perché, se per esempio la rincorro, incapace di agire, si rannicchia per terra. Beh, in realtà lei si chiama Tozzina; il nominativo le è stato dato quando era piccola: il nome deriva da un’insignificante evoluzione di nomi derivanti dal nomignolo Micia. In verità, lei è stata trovata in campagna in Slovenia, dalla mia nonna materna, quando aveva l’età di pochi mesi Io non ero ancora nata.

Sono molto felice di avere accanto un gatto così fantastico perché data l’età sembra, a tutti quelli che la vedono, un cucciolo. Un giorno, infatti, è venuta a casa una ragazza e ha detto: “ma guarda che bella cucciola!”.

E’ veramente, veramente, un’ottima micia! Tozzina non ha mai avuto cuccioli perché è stata sterilizzata, ma mi sarebbe piaciuto un giorno vedere tanti piccoli ciuffetti trotterellare in giro per la casa.

Insomma, la fantasticità in animale!!!

L’ora delle Ombre

“Sofia non riusciva a prendere sonno.

Un raggio di luna che filtrava tra le tende andava a cadere proprio sul suo cuscino.

L’ora delle Ombre, qualcuno le aveva confidato un giorno, è quel particolare momento a metà della notte quando piccoli e grandi sono profondamente addormentati, è allora che tutti gli esseri escono all’aperto. Il raggio di luna brillava più che mai sul cuscino di Sofia, così lei decise di scendere dal letto per accostare le tende.

In un attimo era scomparsa sotto le tende e guardava dalla finestra.

Sotto la luce lunare la strada del paese sembrava completamente diversa. Le case apparivano contorte, come in un racconto fantastico.”

Sofia lasciò errare lo sguardo più lontano. E improvvisamente si sentì gelare.

Capì. Quello sarebbe stato il momento in cui lei avrebbe tremato come una foglia d’autunno più di ogni altra cupa, paurosa, lugubre notte. Intravide esseri – non capace di descrivere – del tutto orripilanti: uno sembrava Satana uscito dagli Inferi e all’altro, suo compagno, inchinatosi al suo Re, la testa gli ruzzolava giù dalla collina: l’osare sfidare il Re. Intanto, il Re, impassibile, accerchiato da altre ombre che compivano riti spirituali, si sedeva sul suo Paggetto. Una lunare luce soffusa si faceva strada tra le spettrali viuzza paesane, mentre un picchio batteva e il vento soffiava. Il re, dopo un po’, fece un cenno per far smettere il rito, e così fu.

Tremando in tutto il corpo, Sofia si ritrasse dalla finestra, saltò nel letto e si nascose sotto le coperte.

 

 

 

Taro, cane da salvataggio

Qualche giorno fa, durante la gita “Caminada per le Rive”, abbiamo potuto assistere ad un evento meraviglioso:

era una prova di salvataggio nel nostro mare

Video

Il bosco come incantato…

Sono a casa.

Ho appena finito i compiti; sdraiata sul divano sto sfogliando un vecchio libro di favole, mi soffermo a guardare l’immagine di un bosco su una alta montagna innevata.

Mi ricorda quando tanto tempo fa ero andata in un bosco tutto innevato.

Là c’erano scoiattoli, tanti alberi di ogni tipo, qualche ciuffetto di erba da cui sole le sue verdi punte sbucavano fuori dall’alta neve, un buio abbastanza cupo da cui solo in qualche fessura tra il bosco entrava un po’ di luce, passeri, corvi e cornacchie, bianchi e candidi colombi, una vecchia casetta in legno abbandonata in mezzo alle scure foglie di un cipresso molto grosso.

C’erano tanti rumori come il cinguettio degli uccelli, il canto delle cicale che dagli alberi mi guardavano ma io non vedevo, lo squittire degli scoiattoli, il ronfare dei gatti selvatici mentre di accoccolavano sui tronchi degli alberi, il correre dei caprioli e dei cervi, il verso dei volpini mentre giocavano davanti alle loro tane, il guaire di grossi cani buoni, lo sbattere delle foglie con il vento, i fischi del vento di quando passava nelle cavità degli alberi tutti beccati dai pettirossi.

Insomma un bosco come incantato.

– Sveva, cosa stai facendo?- La voce della mamma mi riporta alla realtà.

Voci precedenti più vecchie